A novembre, pochi pensieri mi hanno fatto tribolare come la COP27. L’edizione 2022 della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che ha avuto luogo a Sharm el-Sheik, si è conclusa due giorni dopo la data di fine prevista. Come al solito, i grandi della terra non riuscivano a mettersi d’accordo. I colloqui sul clima rischiavano di chiudersi con un nulla di fatto, e invece, alla fine, hanno prodotto in extremis un traguardo, diverso da quello che ci aspettavamo ma comunque importante in termini di giustizia: è stato istituito un fondo “perdite e danni” per risarcire i paesi vulnerabili vittime della crisi climatica. D’ora in poi saranno i paesi sviluppati, in maggioranza colpevoli dell’inquinamento e dello sfruttamento di risorse, a pagare per aiutare chi ne sta scontando le conseguenze.
Come scrive Riccardo Luna su La Repubblica, il messaggio lanciato dalla COP27 è “chi inquina paga”. Potrebbe suonare giusto, ma in realtà rappresenta l’ennesima riprova che stiamo affrontando la questione con la mentalità sbagliata: preferiamo sborsare soldi piuttosto che cambiare. Nel frattempo, per il problema più urgente di tutti, ovvero per la riduzione delle emissioni inquinanti, non si è fatto nulla, anzi, alla Conferenza erano presenti in massa lobbisti delle compagnie petrolifere.
Avrei ancora tanto da dire su quanto è successo ai colloqui egiziani – anzi, per approfondire, ecco il riepilogo di Valigia Blu – ma voglio invece parlarvi di come la vicenda mi ha fatta sentire e, probabilmente, ha fatto sentire molti di noi.
A ogni edizione del tg, a ogni post sui social, la COP27 è stata un boccone amaro. Oltre al bisogno di sapere per avere più controllo, dentro di me lottavano la rabbia verso le istituzioni, il senso di impotenza davanti al disastro e la paura del futuro, sempre più grande e familiare. Sono emozioni potenti, con cui ormai convivo da anni; mi capita di provarle quando guido l’auto, faccio la spesa, getto la differenziata, avvisto un rifiuto a terra… e in molti altri momenti delle mie giornate. Certe volte mi pare di dover scongiurare io, tutto da sola, il superamento del limite di 1.5° C di riscaldamento globale stabilito dall’Accordo di Parigi. E oscillo tra la tentazione di abbandonare lo stile di vita dettato dal capitalismo in favore di uno più radicalmente ecologico, e la convinzione che il mio slancio sia solo il dimenarsi dell’animale che non si arrende al fatto che il suo tempo sia scaduto.
Si tratta di un tipo specifico di angoscia che oggi accomuna tanti di noi, e che abbiamo ribattezzato “ecoansia” o “ansia climatica”. Per chi non ne ha mai sentito parlare, col neologismo intendiamo “la profonda sensazione di disagio e di paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri legati al riscaldamento globale e ai suoi effetti ambientali”. L’ecoansia è sempre più diffusa, soprattutto tra i giovani tra i 15 e i 25 anni, ed è caratterizzata da diversi stati d’animo: paura, inquietudine, senso di colpa, incertezza, frustrazione; la condizione può portare a una certa “apatia”, che alcuni psicologi hanno definito “reazione di congelamento”, ma anche manifestarsi in modo più grave, con attacchi di panico, insonnia, depressione, pensieri ossessivi. Insomma, l’ecoansia genera molto stress e, se persiste, può influire negativamente sulla nostra salute mentale.
Tuttavia, l’ecoansia può avere anche una funzione positiva. Infatti, nell’accogliere il termine nel suo lessico, l’American Psychological Association vi ha accostato il concetto di “premura”; personalmente, mi rivedo molto in questa parola: sento che la mia non è solo una reazione di angoscia di fronte alla probabile fine del mondo, ma una vera urgenza di cura nei confronti dell’ambiente. La distruzione che a cui assisto – e a cui inevitabilmente, in qualità cittadina di un paese ricco, contribuisco – mi fa soffrire e quindi venire voglia di agire per cambiare le cose, almeno nel mio piccolo. Per questo, come singola consumatrice, cerco di fare tutto quello che posso per ridurre i miei sprechi e i miei acquisti futili, produrre meno emissioni di carbonio e rifiuti inquinanti, e per raggiungere, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta, uno stile di vita più sostenibile.
Ora, la sostenibilità è un argomento vastissimo, che non pretendo di esaurire in poche righe; ma c’è qualcos’altro che voglio aggiungere sull’ecoansia e sui suoi possibili risvolti positivi, qualcosa di molto caro a Nathivia. La nostra mission infatti è promuovere un cambiamento di paradigma nella relazione essere umano-natura, proponendo azioni che rovescino il modello piramidale a cui siamo abituati e in cima al quale ci siamo messi, e che ci aiutino a diventare soggetti consapevoli e rispettosi, capaci vivere in armonia con il Sistema Terra, di cui siamo solo una parte. Nella spinta a realizzare questa rivoluzione, l’ecoansia può giocare un ruolo fondamentale. Ma deve essere affrontata, gestita e trasformata.
Secondo Matteo Innocenti, psichiatra, psicoterapeuta ambasciatore del Patto europeo per il clima (nonché autore del saggio Ecoansia. I cambiamenti climatici tra attivismo e paura), esistono diverse emozioni ambientali, ossia emozioni che proviamo quando ci relazioniamo all’ambiente. Tra queste, la prima a farsi sentire al giorno d’oggi è proprio l’ecoansia, che sta diventando sempre più comune e intensa, ma che rappresenta una risposta più che normale ai concreti segnali di allerta (ondate di calore, siccità, alluvioni) che il pianeta ci invia ormai quotidianamente. Non è negativa di per sé, anzi, ci spinge appunto a cercare soluzioni e a essere utili alla causa; ma può diventare problematica quando persiste, perché ci fa perdere fiducia nei confronti della nostra autoefficacia e di quella collettiva, e sfocia in sentimenti di impotenza. Insomma, alla lunga può convincerci che il mondo non può essere salvato, farci sentire tristi e inutili, e quindi paralizzarci.
Ma l’“ecoparalisi”, spiega Innocenti, non è nient’altro che una strategia di adattamento: serve a “ridurre l’impatto emotivo che il cambiamento climatico ha su di noi”. Esserne consapevoli è fondamentale per uscire dal blocco, fare della nostra ecoansia un motore positivo e contribuire col nostro esempio a cambiare la mentalità di tutti.
Il punto della questione infatti, come è già stato detto, non è stabilire di chi sia la colpa e quindi la responsabilità di cambiare, se nostra o delle istituzioni: benché sia chiaro che le scelte dei governi e delle aziende abbiano un impatto maggiore di quelle del singolo individuo, la crisi climatica è un problema globale e quindi come tale deve essere affrontato. C’è bisogno dello sforzo di ognuno di noi per riuscire a invertire la rotta e a frenare il disastro.
In conclusione, teniamoci cara la nostra ansia climatica – finché, ovviamente, non ci renda impossibile vivere; in quel caso, meglio affidarsi a un professionista – e lavoriamo insieme per trasformarla in una forza. Se poi dovesse farsi troppo intensa, abbiamo sempre un’efficace e piacevole soluzione a portata di mano, come suggerisce Innocentini: possiamo andare in natura, riconnetterci con essa e lasciare che la attenui, ricordandoci la bellezza e il valore per cui vale la pena di combattere.
scritto da Sofia E.